domenica 26 aprile 2015

La piazza di Aquino chiusa da muraglioni: così è naufragata l'idea di democrazia



Due sono gli concetti su cui vi indurrò a riflettere brevemente per dovere di sintesi.
Da una parte la concezione di Spazio pubblico e dall’altra la concezione di Piazza, ambedue gli aspetti ovviamente calati nella tematica urbana che dialoga indissolubilmente con la problematica della antropizzazione del paesaggio e con l’aspetto socio-antropologico dell’agire umano in tali contesti.

Percorro questo impervio sentiero per dibattere con voi del processo legato alla responsabilità di dover tramutare un vezzo di matita in un segno concreto sul territorio. 
Il progettista ha il carico di un Edipo che spesso - non riconoscendo la natura del suo essere - regna dal talamo della madre. Per dirla parafrasando Jung: cosa vale comprendere l’essenza stessa dell’uomo se manca la responsabilità della scelta personale percepibile nel segno a partire dal cogliersi nella capacità simbolica e distinguendo ciò che essa significa per ogni individuo?

Se ogni forma sociale è anche una forma spaziale (Ledrut 1984), le forme sociali sono spaziali e temporali. Nel cercare di spiegare le forme sociali si incontra, dunque, immediatamente il problema fondamentale delle relazioni tra forma
e senso: la forma riceve senso o dà senso? Non si può osservare la logica della forma senza comprendere che materia e forma sono reciprocamente legate, assumono significato l’una nell’altra.

Luogo che in assoluto pertanto riveste una qualità simbolica, funzionale, relazionale, di singolarità nell’alterità, mercantile, contrattuale e tanto altro  ancora è indubbiamente la Piazza. Essa ha dunque la capacità di tramutare sistematicamente la pluralità dei luoghi in un unico spazio. 
Tutto ciò per cercare di decostruire in realtà l’iter progettuale che ha portato alla realizzazione della cosiddetta piazza ricavata da uno spazio antistante la chiesa parrocchiale di Aquino.

Ogni cittadino che vive una piazza ha da sempre avuto la possibilità di sperimentare la propria fisicità pervadendo, attraversando e spostandosi in uno spazio all’interno del quale “agisce”
Le piazze parlano dell’uomo e all’uomo, in quanto moltitudine del suo essere intersoggettivo, del muoversi nella dimensione pubblica e dei vantaggi o svantaggi che ciò comporta. Il muoversi verso l’altro, legato al processo fisico dell’agire, dove per “agire” (ago - da cui agorà) è il momento fruttuoso della vita all’aperto.
Potrei forse pensare che in questa particolare formulazione progettuale si possa ravvisare il simbolo di una nuova socialità, articolata in una partizione multifunzionale che era prodromica del più contemporaneo vissuto antropologico. Avrei forse finito col dire che i luoghi del collettivo non esistono più, per via del generalizzarsi della precarietà, che rende i confini tra lavoro e vita quotidiana molto sfumati e singolarizza le esperienze, le rende feste occasionali.  
Nell’epoca postmoderna tutto è definito liquido e fluido, pure il pensiero, e perciò: viva i non- luoghi (Augé 1992). Siamo ancora in una fase di controcultura, di messa a morte della  piazza - come dell’arte - e in questa fase non c’è posto per le oasi, ma solo per i transiti, per i “fast mood”. Fino a quando? – sarebbe il caso di chiedersi. Eppure la tesi del “mordi e fuggi” è la più frequente, accettata e stabilizzata, quella che di solito prelude a una laudatio temporis acti. Nostalgia dei tempi in cui la piazza era un vero condensatore sociale, luogo abitato, di aggregazione vivace e chiassosa. 
Questo progetto realizzato ad Aquino ha però chiuso lo spazio, ha imbrigliato ogni potenzialità dei rapporti tra le parti architettoniche poiché le scelte derivanti dalle diverse quote altimetriche hanno penalizzato ogni possibile sviluppo. Potremmo dire che le emergenze, i vuoti, e i muraglioni secchi e aspri degli edifici circostanti sono stati cuciti da una semplificativa muraglia raccordatrice senza impegno concettuale, ma come frutto di uno sbrigativo segno. 
Nel nostro caso specifico questo “luogo negato” sembra piegato ad una concettualità dominata da un vetusto razionalismo revisionista figlio di una mano influenzata apparentemente da eredità alla Rossi o alla Portoghesi. 
Qui “la ragione arriva a vedere solo ciò che essa stessa produce secondo il suo progetto” o allo schizzo, al disegno,  che appunto soltanto per approssimazione corrisponde alla realtà. 
Il processo deriva da un unico atto, da quella che Baudrillard (1981, p. 10), chiama la “precessione del simulacro”, e che propriamente consiste nell’anteporre alla realtà l’immagine cartografica, il disegno topografico, e pretendere che la prima discenda dalla seconda, in base a quel che potrebbe chiamarsi – mutuando l’espressione dalla critica cervantina – “il principio di realtà sufficiente” (Torrente Ballester 1975; Castilla del Pino 2005, pp. 116-117)

Se si fosse lavorato alla luce di una  semiotica dello spazio sulle forme di localizzazione, d’orientamento e di distribuzione, d’inclusione e d’esclusione, d’intersezione e di sovrapposizione, queste avrebbero restituito una misura alla prossimità e alla distanza, all’ampiezza e alla densità dei fatti e dei gesti umani.
Di conseguenza la questione che si pone oggi è quella di comprendere come si distingue l’oggetto composto dall’oggetto giustapposto. Come l’uno si libera del multiplo? Come un oggetto si chiude su se stesso, per disfarsi dell’altro? Qual è la grammatica degli oggetti? Come fa un oggetto giustapposto a diventare componente di un altro? Queste questioni entrano a pieno titolo in una semiotica dello spazio. La mia opinione è che invece l’intero impianto planimetrico e volumetrico avrebbe dovuto  parlare “netto e chiaro”, col rigore dell’abaco, con la categoricità della partita doppia.

 Ai luoghi del collettivo urbano, agli spazi di incontro si chiede una maggiore qualità, un maggior livello di attrattività. La recente fortuna di concetti come l’urban vitality nel mondo anglosassone o l’urbanità di scuola francese mettono
in evidenza la necessità di costruire il progetto urbano partendo da un livello di densità delle città che favorisca la qualità sfatando la profezia wrightiana di suburbanizzazione.
Lo spazio pubblico dovrebbe essere legato al connettivo e alle porosità urbane: il progetto si doveva articolare partendo da chiari concetti di accessibilità – evoluzione del concetto di mobilità – e permeabilità – che si riferisce alla connessione tra un vuoto e l’altro anche attraverso reti più deboli.
In questo quadro il paesaggio non sarebbe divenuto puro sfondo della città compatta, né  tantomeno piano indifferenziato su cui poggiare architetture più o meno efficienti. 
La piazza è indiscutibilmente lo spazio della memoria sociale nei termini di una relazione contrattuale o conflittuale con l’altro, istituzionalizzazione ed interpretazione, in chiave politica delle funzioni di mercato.

Rendere tale relazione una risorsa - ecco il fine della piazza. Porre l’interazione a fondamento degli assetti urbani, rivitalizzarla, pensarla come piano del contenuto di planimetrie che possano favorirla, rafforzando la componente civica.
Anche nelle piazze d’Europa più recenti o sorte in periodi lontani dall’agorà e dal Foro - nel XII secolo con i Comuni ad esempio, è il caso dell’Italia - il tratto distintivo da difendere, o da creare ex novo, resta quello della democrazia.


domenica 19 aprile 2015

Se la luce del Duomo non viene mostrata



« Καὶ ἠγάπησαν οἱ ἂνθρωποι μᾶλλον τὸ σχότος ἢ τὸ φῶς »
« E gli uomini vollero piuttosto le tenebre che la luce » (Giovanni, III, 19)

Per un attimo scegliete di travalicare questo schermo e assaporate il contatto con questa strana entità fisica. La Luce.
Vi sto portando ad ammirare con occhi di un’altra mente il nostro mondo pieno di sensazioni spesso trascurate. Cosa è in grado di evocare questa eterea presenza e cosa ha generato nel nostro contesto urbano fatto di un  Tempo storico e architettonico? 

La definizione "metafisica della luce" fu coniata nel 1916 da Clemens Baeumker, e indica un contesto speculativo della cultura filosofica e teologica latina medievale che si innestò sotto la spinta di molteplici influssi: neoplatonici, teologici (la patristica greca, Agostino e lo pseudo-Dionigi) e arabi (Alkindi, Avicenna, Algazel e soprattutto Avicebron). La dottrina agostiniana dell'illuminazione divina dell'intelletto, ininterrottamente trasmessa nel pensiero medievale, connette insieme il livello fisico, psicologico, gnoseologico e teologico sotto l'insegna della luce, ed in stretta continuità con la dogmatica cristiana: espressioni come Cristo lumen gentium, e la relazione trinitaria quale lumen de lumine divengono più che una metafora o pura analogia. 
Provo adesso a contestualizzare calando nella nostra dimensione tali concetti:
«La luce come forma architettonica» è esattamente l'opposto dell'«architettura della luce», in quanto in quest'ultima la luce può essere indipendente dall'architettura e formarne una propria anche con esiti devastanti e offensivi dei sottostanti livelli.
Questa «luce come forma architettonica» è inscindibile dai caratteri specifici dell'architettura. E poiché il linguaggio architettonico è qualificato dallo spazio interno, dalle cavità vissute in modo dinamico, «la luce come forma dell'architettura» riguarda principalmente lo spazio interno e il suo involucro. 
Guardando alla Preistoria (grado zero della luce),  non ci sono regole, simmetrie, ripetizioni, assonanze, stabilità, armonie, equilibri e proporzioni, ma piuttosto casualità e dissonanze di ogni genere e intensità.
Nelle caverne, nei passaggi sotterranei, nei templi e nelle chiese ipogeiche, la luce è più eloquente di quella di ogni altra epoca. Batte su ogni superficie che non è separata dalle altre, ma si muove su piani continui, ruvidi, organici, impuri, contaminati, rovinati. Entro questo sistema, il buio gioca spesso un suo ruolo più o meno inquietante.
In tale senso l'intera storia dell'architettura forse potrebbe essere  interpretata come una serie di tentativi per riconquistare alcuni dei valori perduti della preistoria.
Nelle età antiche, la luce segue le finalità dello spazio. 

Nell'antica Grecia, ad esempio, la luce cade sui volumi e sulle loro componenti, colonne, modanature, cornici. Le Corbusier parla giustamente di «volumi liberi e puri sotto la luce», non della luce attraverso e dentro i volumi.
Qualcosa di analogo accade nell'antica Roma. Quando lo spazio interno esiste, ma è statico, isolato, privo di contatti con lo spazio urbano, la luce resta un'entità fine a se stessa, e basti pensare all'oculo del Pantheon in cui la luce permea il vuoto e non dialoga con il tutto poiché non aggiunge significati simbolici alla struttura. 
Nel Medioevo la luce deflagra, si fa protagonista dell'architettura, specie nei suoi interni stregati. Non di rado, la consistenza tettonica è disintegrata, poiché l'involucro è ammantato di mosaici. Ogni profondità è riassorbita, e le pareti si riducono a superfici fluenti.
In questo mondo senza peso, la luce può determinare esiti stupefacenti.
Basti pensare a San Vitale di Ravenna, a Santo Sofia ad Istanbul, al nostro Duomo di Monreale. Nel nostro famoso tempio normanno le absidi dilatano il vuoto, attirando brani della cavità dall'interno verso l'esterno. Ma la luce contrasta questo moto e preme dall'esterno all'interno. Alla fine, la luce vince, inonda le superfici mosaicate che l'incorporano e la ritrasmettono tanto che sembra emanare da dentro a fuori. Le pareti sono radianti, assai più delle loro forature. Per non parlare del gioco di riverberi alto/basso contrastati tra il marmoreo bianco istoriato del livello umano che diviene esplosione di luce mistica nel superno fragore dorato. 
La luce di Dio non è né spirituale, come quella dell’intelletto angelico e umano, né corporea come quella che costituisce gli enti naturali: è indefinibile e completamente trascendente. Dunque anche sul piano teologico si avvalora l'assunto che ogni esistenza è una forma della luminosità.
Nella Genesi tutto origina nella Luce (Gen 1,3) Nella risurrezione si verifica in modo più sublime ciò che questo testo descrive come l’inizio di tutte le cose. Dio dice nuovamente: «Sia la luce!». Con la risurrezione, il giorno di Dio entra nelle notti della storia. A partire dalla risurrezione, la luce di Dio si diffonde nel mondo e nella storia. Si fa giorno. Solo questa Luce – Gesù Cristo – è la Luce vera, più del fenomeno fisico di luce. Egli è la Luce pura: Dio stesso, che fa nascere una nuova creazione in mezzo a quella antica, trasforma il caos in cosmo.

Nel corpo di fabbrica del Duomo questa luce non buca le pareti per colorare lo spazio, ma diviene  intrinseca all'involucro edilizio, che risulta tessuto da partizioni  strutturali e tracciati di luce. 

Pertanto il tema della luce non è analizzato con dovuta attenzione nelle quotidiane visite  architettoniche di questo bene religioso e culturale. Un fondamentale strumento del linguaggio dell'architettura e del messaggio cristiano viene dunque sottovalutato. Inoltre ciò che è divenuto indifferenza dei critici e dei commentatori nei confronti dei valori della luce si riflette automaticamente in quella dei progettisti e dei fruitori generici; gli edifici contemporanei risultano così drammaticamente privati di uno dei loro più arcani e ipnotici messaggi.

giovedì 16 aprile 2015

Cosa è una Piramide?


La piramide come forma geometrica fondamentale, come archetipo storico appartiene all'arte di tutti i popoli e di tutte le epoche. 
L'elemento principale di questo monumento è la massa: con le sue lisce ed immense pareti suscita senso di imponenza e di grandiosità. Considerandola duratura in eterno, l'uomo che la costruiva poteva illudersi di aver conquistato l'eternità. 
Qui a Monreale qualcuno ha avuto purtroppo il sacrilego pensiero di appellare con il nome di piramide una insignificante vetrata collocata in una nobile piazza. 
La piramide nel suo stesso essere enfatizzava la dimensione infinita dello spazio ergendosi come un tempio nella sua purezza della forma geometrica di base. 
In sintesi la piramide è certamente la forma geometrica che più di ogni altra è legata alla rappresentazione della morte, ma dobbiamo anche ricordarci degli altri contenuti che in modo più o meno esplicito sono ad essa ascritti. 
Un salto di qualità si è avuto nell'epoca attuale, quando la tecnologia ha permesso di costruire un solido attraversatile con lo sguardo. 
Se consideriamo allora il paragone con il lavoro di Pei a Parigi, la forma piramidale è suggerita, oltre che da opportunità strutturali, costruttive e funzionali, anche da criteri architettonici e d'inserimento ambientale, cioè non essere quest'opera confusa come completamento o aggiunta dell'attuale complesso, ma da questi staccarsi nettamente rappresentando un segno proprio dei nostri tempi (costruzioni tutto vetro). Tale Forma scatena stupore e controversie rivolte soprattutto al suo simbolismo ma poi le masse esterne e lo spazio interno si fondono tra loro e la luce penetra intatta le pareti di vetro.
Invece al nostro progettista grido con forza: fammi avvertire che c’è di più: che scegli la trasparenza perché vuoi una luce secondo natura, perché amplifichi il limite tra chiuso e aperto o che una delle vescicole interne, una delle cavità sono ribaltate e disvelate.
Non farmi impattare invece con un bubbone, con una escrescenza spigolosa.
Un esercizio di design “politico” lo avrei anche accettato, o meglio ancora se avessimo intravisto un mero esercizio di stile partendo ad esempio dalla storia del design di Thonet per approdare al freddo metallo contemporaneo.
Caro mio progettista io comprenderò tutto: la fretta, la pressione del committente, l’esiguità del budget, ma alcuni elementi vanno sempre e inderogabilmente inseriti nel porre un segno prima sulla carta e poi sul Territorio.
La prima istanza è “progettare le Emozioni” e qui tutto rimanda al contrario al fantasma di un pezzo di formaggio…;
Muoversi nel rispetto del contesto storico (e il talento qui espresso non è certo quello di Ieoh Ming Pei);
Eviscerare e far vivere il rapporto interno/esterno, sopra/sotto, luce/buio;
Capacità di comunicare il progetto
Segnare il passo dell’innovazione intellettuale, del gioco dei sensi e svelare il segreto;

Oggi purtroppo ammiriamo solo un rifiuto urbano degno della peggiore periferia, una bruttura in un contesto protetto e nonostante gli sforzi resta e resterà una becera porta in vetri abbaìno dei ratti che, dagli inferi delle loro fogne, salgono alla nostra dimensione. 


lunedì 13 aprile 2015

Terremoti ed Aviazione ad Enna




Ieri l’inaugurazione del 10° anno accademico della Università Kore di Enna e in contemporanea del nuovissimo Laboratorio per l’Analisi e Diagnosi dei terremoti.

Era presente l’ex Ministro Letizia Moratti - all’epoca responsabile dell’università e della Ricerca - per sottolineare come fu dato impulso a questa innovativa sede poiché “in questa università si coniugano perfettamente le inclinazioni scientifiche e umanistiche del sapere, con la capacità di guardare alla globalizzazione secondo una visione internazionale con i suoi progetti all’avanguardia, invidiati in tutta Europa”.

Questa Università e in particolare la Facoltà di Architettura e Ingegneria sono il fiore all’occhiello della cultura scolastica universitaria in Sicilia.



 Il progetto architettonico è stato redatto con risorse interne all’Università “Kore” di Enna sotto la guida del Prof. Gianluca Burgio. Il progettista del nuovo insediamento Universitario racconta di “un lungo iter progettuale che sta portando benefici alla economia della provincia e allo sviluppo culturale dell’isola, poiché nell’edificio MARTA, saranno collocati ben 2 simulatori di volo di ultima generazione per la sperimentazione e l’addestramento di piloti di linea di tutta Europa”.


In particolare, il progetto L.E.D.A. (Laboratory of Earthquake engineering and Dynamic Analysis) ha ricevuto recentemente un finanziamento di 10 milioni di euro per la costruzione di questo centro di ricerca e diversi laboratori  con la istituzione di un Master di II livello in "Ingegneria Sismica” nell’anno accademico 2013/2014. Tutti i laboratori, il centro di ricerca e le strutture didattiche saranno comprese in un unico edificio, promuovendo così l’interazione tra le attività teoriche, sperimentali e numeriche condotte nell’ambito nel progetto L.E.D.A.
Il Rettore Prof. Giovanni Puglisi ha dichiarato che in questo modo “si dimostra che anche in Sicilia si possono realizzare grandi opere funzionali e incubatrici di cultura”.
“Enna fulcro dell’economia e della cultura per la nuova rinascita della Sicilia, e la Kore con la sua vocazione punta a spiccare per affermare il proprio ruolo in Europa” la chiosa del Preside della Facoltà di Architettura e Ingegneria Prof. Giovanni Tesoriere.